Lo slogan “Not charity, just work” di Ethical Fashion Initiative non è un semplice motto, ma rappresenta una vera e propria visione del mondo.

EFI (Ethical Fashion Inititive) è il programma di International Trade Center, agenzia congiunta di Nazioni Unite, che da anni si impegna a mettere in connessione piccole cooperative artigiane dei Paesi a basso reddito con grandi brand del fashion internazionale. Il primo obiettivo del progetto è quello di garantire condizioni di lavoro eque e dignitose alle artigiane e agli artigiani coinvolti, permettendo loro di intraprendere un percorso di crescita in paesi in cui spesso i diritti dei lavoratori risultano poco considerati.

Se vista in quest’ottica, la volontà di investire sulla produzione in Paesi a basso reddito rappresenta un importante valore aggiunto: non solo garantisce uno sbocco commerciale ai tessuti e ai manufatti degli ateliers locali, ma permette la creazione di nuovi posti di lavoro regolari in paesi a forte rischio di sfruttamento.

Da un punto di vista opposto, la delocalizzazione è spesso stata un’occasione per aziende ed imprenditori per approfittare degli importanti vantaggi economici che determinate aree offrono, a scapito dei diritti dei lavoratori e della sostenibilità ambientale delle pratiche. Sud-est asiatico, America Latina ed Europa orientale sono le mete più ambite dagli imprenditori italiani e non, attratti dalla possibilità di ridurre consistentemente i costi di produzione. Cosa comporta tutto questo? Quanti e quali effetti porta con sé la delocalizzazione produttiva?

Una prima riflessione da fare è quella ambientale: se dagli ultimi rapporti sulle emissioni inquinanti presentati da ISPRA emergono alcuni dati rassicuranti (ad esempio che tra il 1990 e il 2018 in Italia si è registrato un calo nelle emissioni di CO2 del 17%, dato molto simile a quello di altri paesi europei), allargando la prospettiva si può avere un’altra, più realistica, visione delle cose. Prendendo in esame lo stesso periodo, a livello globale, le emissioni di anidride carbonica sono cresciute del 41%, in particolare in Cina e in India dove le cifre arrivano addirittura a +200% e +144%. Si tratta di un probabile effetto diretto della delocalizzazione in luoghi dove le legislazioni locali non impongono l’utilizzo di energie verdi o un tetto massimo alle emissioni: è questo il focus del dibattito europeo sulla Border Carbon Tax, dove si parla di “delocalizzazione delle emissioni di carbonio” per indicare un semplice spostamento, e non una risoluzione, del problema dell’inquinamento industriale.

Inquinamento ma non solo: il forte impatto della delocalizzazione è anche sociale. Se evitare le stringenti normative europee sul clima è uno dei motivi che spingono a trasferire le produzioni al di fuori dell’UE, un altro importante incentivo è sicuramente la possibilità di trovare manodopera a basso costo. Ciò non comporta soltanto stipendi al di sotto del minimo sindacale, ma anche l’abdicazione a qualsiasi elementare norma sulla sicurezza e a qualsiasi tipo di tutela per i lavoratori. Parte di quello che indossiamo continua ad essere intessuto di simili storie: secondo l’IndustriAll Global Union «nel solo mese di marzo, oltre 40 lavoratori tessili hanno perso la vita in Marocco ed Egitto a causa di fabbriche non sicure».

Tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori hanno diritto a condizioni di lavoro solide e sicure, strumenti essenziali per garantire la dignità e la libertà di una persona. Siamo convinti che il reale valore di un prodotto sia strettamente connesso alla storia delle persone che lo realizzano, e alla sostenibilità ambientale che ogni processo produttivo implica in sé. Il nostro impegno e il nostro lavoro sono da sempre orientati in questa direzione, e ci auguriamo che sempre più realtà facciano propri questi principi di equità sociale e sostenibilità ambientale, aumentando le pratiche di trasparenza relativi ai propri processi produttivi.